La formazione umana dell’analista

Il testo che qui pubblichiamo è stato presentato al Convegno La psicanalisi come arte liberale. Etica, diritto, formazione, che si è svolto a Padova il 22 e il 23 ottobre 2022. Successivamente è stato pubblicato all’interno dell’omonimo libro, edito da Polimnia (2023).

Franco Lolli

Il titolo del mio intervento riprende un’espressione di Jacques Lacan che troviamo nel Seminario I 1, pronunciata al termine della lezione del 19 maggio 1954: e – come spesso accade nei suoi seminari – non più ripresa o commentata nel corso delle lezioni successive. Il suo significato, di conseguenza, resterà non chiarito, suscettibile, pertanto, di interpretazioni molto differenti tra loro, a volte francamente contrastanti.

Credo che, per tentare di comprenderne il senso, occorra fare riferimento al ragionamento teorico-clinico che Lacan aveva sviluppato nelle lezioni precedenti, nei due primi incontri del mese di maggio del ’54: per ragioni di tempo, presenterò in maniera schematica quelli che, a mio avviso, sono i punti focali della sua argomentazione. Innanzitutto, il richiamo alla fase dello specchio, alla relazione O-O¹, che troviamo graficamente rappresentata a pagina 195. Lacan torna a parlare di questo fondamentale stadio della costituzione dell’io per sottolinearne un aspetto particolare: la dipendenza del desiderio del soggetto dal desiderio dell’Altro2) e la conseguente affannosa ricerca del proprio desiderio che caratterizza la vita dell’adulto (che del proprio desiderio, per l’appunto, non ne sa nulla). L’analisi – spiega Lacan – serve proprio a questo: serve “a far costruire dal soggetto la storia del suo io, attraverso riprese e identificazioni successive”3. Si tratta, in altre parole, di consentire al soggetto in analisi il riconoscimento del proprio desiderio e di contrastarne il misconoscimento (che Lacan distingue dall’ignoranza): rendere possibile all’analizzante (in posizione di O) di nominare, formulare e, di conseguenza, integrare a livello simbolico, l’oggetto del proprio desiderio (che si trova in O¹). Questa è quella che Lacan definisce “la prima fase dell’analisi”4: passare “da ciò che dell’io è sconosciuto al soggetto all’immagine in cui riconosce i suoi investimenti immaginari”5. Ma – si chiede Lacan – “si ferma tutto qui o si esige un passo ulteriore?”6 Il percorso di analisi, cioè, può considerarsi concluso quando il soggetto può nominare il proprio desiderio che ha riconosciuto nel luogo dell’alienazione originaria? “È semplicemente sufficiente che il soggetto nomini i suoi desideri, che abbia il permesso di nominarli, perché l’analisi sia terminata?”7. Un tale processo di riconoscimento del desiderio non corre il rischio – si domanda Lacan – di rinforzare l’io, di risvegliare e sviluppare nel soggetto “quella stessa sensazione di un’esaltazione sfrenata, della padronanza di tutti gli esiti, che originariamente veniva suscitata nell’esperienza dello specchio”8? Se così fosse, “il soggetto si troverà sempre in O […] in quel punto di invischiamento che chiamiamo il suo ego”9. E l’analisi si ridurrebbe a una forma di apprendimento, di esercizio di padronanza, di acquisizione di perfomances, di perfezionamento delle proprie prestazioni. Ma Lacan, come sappiamo, è di tutt’altro avviso: in opposizione a una certa psicoanalisi che, proprio in quegli anni, affermava la necessità – da parte dell’analista – di allearsi con l’io per rinforzarne il contrasto allo strapotere dell’Es, non si tratta piuttosto – si domanda sempre Lacan – che “l’ego deve spostarsi in A e, alla fine di un’analisi ideale, non esserci più del tutto?”10

Per rispondere a questi interrogativi, bisogna ricordare quel che lo stesso Lacan aveva messo in evidenza nel corso delle lezioni precedenti: queste identificazioni dell’io all’Ich-Ideal (in altri termini, la regolazione immaginaria dell’io) sono veramente efficaci e complete solo “per l’intervento di un’altra dimensione”11, solo grazie, cioè, al “legame simbolico tra gli esseri umani”, che altro non è se non “il fatto che socialmente noi ci definiamo attraverso l’intermediazione della legge”12. La relazione immaginaria io-Ich-Ideal si realizza e si sostiene, pertanto, su quella “trascendente”13, simbolica io-Ideal-Ich. Ma questo processo di integrazione simbolica della propria storia da parte del soggetto implica la considerazione di un fattore che spesso viene trascurato: il ruolo determinante svolto dal super-io. È il super-io, infatti, che, attraverso la censura, “scinde il mondo simbolico del soggetto, lo taglia in due, in una parte accessibile, riconosciuta, e in una parte inaccessibile, proibita” 14. È il super-io che impone la divisione del soggetto, la divisione del soggetto parlante, del soggetto, dunque, capace di mentire e, per tale ragione, “distinto da quello che dice” 15. È il super-io all’origine del misconoscimento che l’analisi deve trattare e risolvere.

Ma – aggiunge Lacan – la scissione prodotta dal super-io non si limita al mondo simbolico del soggetto, “perché si realizza in una lingua che è la lingua comune, il sistema simbolico universale, nella misura in cui esso stabilisce il suo imperio su una certa comunità alla quale il soggetto appartiene. Il super-io è quella scissione che si produce per il soggetto, ma non solamente per lui, nei suoi rapporti con quella che chiameremo Legge”16. L’analisi, allora, non può limitarsi a quella prima tappa nella quale il riconoscimento prende il posto del misconoscimento nel suo rapporto con il proprio desiderio in quanto desiderio dell’Altro: essa deve estendersi ai possibili misconoscimenti che il super-io causa al soggetto in relazione al suo rapporto con il mondo, più precisamente con la Legge, con il suo Ideale dell’Io. “Non si possono misconoscere le appartenenze simboliche di un soggetto”17 questo è un punto molto importante, che merita una sottolineatura, necessaria, in effetti, per affrontare il tema che ci interessa. Dire che ‘non si possono misconoscere le appartenenze simboliche di un soggetto’ significa innanzitutto affermare il valore politico dell’analisi: l’analisi, in altri termini, non può non occuparsi del mondo (simbolico, certamente, ma con ricadute sulla realtà non così facilmente liquidabili) al quale il soggetto appartiene e del modo in cui lo abita. Si tratta veramente di una tesi forte e – aggiungerei – coraggiosa: Lacan dice ad alta voce quel che ogni psicoanalista – consapevolmente o meno – pensa. Come si può non tener conto, del resto, dell’effetto che hanno sull’analista gli ideali ai quali il soggetto in analisi si ispira? Come non considerare le conseguenze contro-transferali (e la loro ingerenza, pertanto, sul piano del trattamento) quando, ad esempio, si ascolta un analizzante che sostiene tesi razziste e vi aderisce in maniera convinta? Si potrebbe proseguire con un lungo elenco di esempi, ma credo che il concetto sia chiaro. C’è però un ulteriore risvolto – meno intuitivo, ma per il nostro discorso più interessante – in un’affermazione del genere: queste appartenenze simboliche possono essere dei contrappesi, delle compensazioni, delle riparazioni a eventi traumatici che hanno lasciato il loro segno.

Lacan, a questo riguardo, ripropone alcune considerazioni già esposte nel suo commento al caso dell’Uomo dei Lupi di qualche anno prima, per mettere in evidenza un argomento di particolare rilevanza, clinica certamente, ma che estenderei al piano teorico-speculativo della genesi del soggetto. Il trauma originario del soggetto (nel caso dell’Uomo dei lupi, la vista di una copulazione dei genitori in una posizione a tergo) lascia tracce, Prãgung, impronte, memorie che non solo non sono verbalizzate né dunque verbalizzabili, ma che non giungono nemmeno alla possibilità di significazione. Si scrivono come puro fenomeno immaginario: ma – ed è questa la notazione interessante che vi aggiunge – tendono a “ripresentarsi durante il progresso del soggetto in un mondo simbolico sempre più organizzato”18. Dunque, su queste tracce, le esperienze successive scriveranno e lasceranno altri segni: nel caso dell’Uomo dei lupi – solo per fare un esempio – la problematica legata al rapporto passivizzante con il padre (uno degli esiti psichici della visione di quella scena) sarà rimaneggiata e “completamente allentata dall’intervento di personaggi carichi di prestigio, il tale o tal altro professore, o ancor prima, dall’introduzione del registro religioso”19. Questo è, a mio avviso, un passaggio straordinario. Gli eventi traumatici vengono riscritti dalle ‘appartenenze simboliche’ che il soggetto ‘sceglie’ di coltivare. Come a dire: il destino non è fissato una volta per tutte dalla traumaticità dei primi anni di vita ma è continuamente rimaneggiato dall’influenza di quegli incontri successivi che il soggetto sceglierà di avere o meno. Il che, pertanto, smentisce ogni possibile considerazione dell’evoluzione psichica del soggetto come totalmente – e deterministicamente – provocata da quanto accaduto nell’ambito delle relazioni primarie. Se è vero che quest’ultime sono capaci di congelare immagini e esperienze traumatiche precoci, è altrettanto vero – aggiunge Lacan – che “è nella misura in cui il dramma soggettivo viene integrato in un mito che abbia un valore umano esteso, o addirittura universale, che il soggetto si realizza”20. Nella vita – sostiene Lacan – possono intervenire “elementi propriamente insegnanti” 21 che esercitano un’attrazione direttiva degli avvenimenti precocemente vissuti. Su questo punto non ci possono essere dubbi: il soggetto integra gli avvenimenti della sua vita “in una legge, in un campo di significazioni simboliche, in un campo umano universalizzante di significazioni22”. L’impronta originaria – la Prãgung – si troverà così integrata in forma di simbolo: sempre pronta, tuttavia, a riemergere come trauma quando “qualcosa si distacca dal soggetto nel mondo simbolico che egli sta integrando”23. La storia del rapporto tra l’io e il suo Urbild, il suo Ideal-Ich: è questo, allora, l’oggetto fondamentale del processo analitico. Ed eccoci così giunti al punto di partenza del ragionamento che Lacan sviluppa nella lezione del 19 maggio.

Il tema che sembra costituire l’innesco della sua elaborazione è, pertanto, la riflessione su come in analisi sia assolutamente necessario lavorare sulla “scissione che si produce per il soggetto – ma non solo per lui – nei suoi rapporti con quella che chiamiamo Legge”24 e su quelle che ha chiamato ‘appartenenze simboliche’.

Per spiegare quanto affermato, Lacan presenta un frammento clinico: si tratta di un suo paziente, un uomo di religione islamica (religione che aveva, da adulto, scelto di abbandonare) che lamentava sintomi molto particolari, sintomi che avevano a che fare con una certa disfunzionalità della mano. Nella precedente analisi, tale sintomo era stato messo in relazione all’attività masturbatoria infantile. L’analista, infatti, aveva interpretato la disfunzionalità della mano come effetto di una classica interdizione (paterna) del piacere sessuale; come un fenomeno, cioè, di inibizione motoria che metteva in scena la proibizione edipica – “non userai la mano così non potrai masturbarti!”. Lacan, tuttavia, affronta il caso da un’altra prospettiva, mettendo in valore un altro elemento della biografia del paziente, che nella precedente analisi era rimasto assolutamente in ombra.

Il padre del paziente, quando il paziente stesso era ancora un bambino, era stato coinvolto in una vicenda in cui, in qualità di funzionario, aveva commesso un furto. Ebbene, nel paese arabo nel quale viveva, tradizionalmente la legge coranica aveva nei secoli prescritto che alla persona colpevole di furto venisse tagliata la mano – prescrizione che, precisa Lacan, non era più in vigore, ma che “nondimeno resta iscritta nell’ordine simbolico”25 del soggetto. Un elemento culturale misconosciuto si era incistato così nello psichismo: un enunciato “gli sarà tagliata la mano”, isolato dal resto della Legge, era passato nel sintomo, restando al centro dell’inconscio e mettendo in secondo piano i riferimenti edipici (e l’eventuale e supposta interdizione della masturbazione). Quella prescrizione coranica (che – possiamo aggiungere – inscenava evidentemente la traumatica considerazione della castrazione paterna) era rimasta al centro di tutta una serie di espressioni inconsce sintomatiche”26, dimostrando – secondo Lacan – che “per ogni essere umano, è in relazione con la Legge alla quale si ricollega, che si situa tutto ciò che può capitargli di personale”27. L’elemento personale, biografico, individuale si inscrive, si riconfigura e si modella nella Legge, nel simbolico, nell’universale. La storia di ognuno, in sostanza, è unificata dalla Legge, dal suo universo simbolico, che non è lo stesso per tutti. Nel caso del paziente in questione, l’incontro con la castrazione del padre – che aveva commesso un reato e perso il posto (elemento biografico individuale, personale, particolare) –, si era legato alla punizione prevista dalla legge islamica (il mondo simbolico e universale, a bagno del quale quel bambino era cresciuto): l’evento traumatico, in altre parole, aveva fatto passare in primo piano un “enunciato discordante” 28 della Legge, capace di imporsi come istanza cieca e ripetitiva (quel che chiamiamo super-io – aggiunge Lacan) e dettare le proprie condizioni al sintomo (impedimento nell’uso della mano). Si vede bene, in questo breve frammento clinico, come il registro della legge risuoni nella vita individuale: e determini la “posizione personale”29 del soggetto, che è – aggiunge Lacan – “funzione del suo livello sociale, del suo avvenire, dei suoi progetti, nel senso esistenziale del termine, della sua educazione, della sua tradizione”30.

Lacan, attraverso il commento di questo caso, sottolinea quanto sia importante considerare il rapporto del desiderio del soggetto con l’universo simbolico all’interno del quale egli è chiamato a collocarsi: i cui elementi possono influenzare la vita del soggetto, ben oltre e aldilà della questione edipica. Il sintomo del paziente la cui mano non funziona non è, in questa ottica, collegato alla proibizione edipica della pratica masturbatoria (da parte del padre), ma a un aspetto della Legge (coranica, in questo caso, quella in cui il soggetto è cresciuto) che ha lasciato una traccia indelebile nel suo psichismo. Per questo motivo, “una volta compiuto il numero di giri necessari affinché gli oggetti del soggetto appaiano e la sua storia immaginaria sia completata, allorché i desideri successivi, tensori, sospesi, angoscianti del soggetto sono stati nominati e reintegrati, non è stato ancora portato a termine tutto”31. Ecco come, giunto quasi al termine della lezione, Lacan si ricollega ai temi sviluppati nelle lezioni precedenti.

Nelle civiltà occidentali, nelle quali i linguaggi si complessificano, la legge si riduce a quel punto essenziale che è costituito dal complesso di Edipo: “esso è ciò che del registro della Legge risuona nella vita individuale”32. Ma altre strutture della Legge possono, in un determinato periodo, svolgere un ruolo altrettanto decisivo rispetto all’Edipo. L’analisi, pertanto, deve spingersi fino a isolare la possibile presenza di strutture dello stesso livello dell’Edipo, che agiscono indisturbate, nella psiche del soggetto.

“L’esito stesso dell’analisi lo esige. Questo rinvio dove deve fermarsi?”33 Ed è proprio per replicare a questa domanda che Lacan darà quella risposta che si concluderà, per l’appunto, con l’enigmatica frase in questione: “Dovremo forse spingere l’intervento analitico fino ad arrivare ai dialoghi fondamentali sulla giustizia, sul coraggio, seguendo la grande tradizione dialettica? È una questione. Non è facile da risolvere perché in verità l’uomo contemporaneo è diventato singolarmente incapace di affrontare questo grandi temi. Preferisce risolvere le cose in termini di condotta, di adattamento, di morale di gruppo e altre sciocchezze. Da qui la gravità del problema costituito dalla formazione umana dell’analista. Vi lascio qui, per oggi.”34[Il corsivo è mio].

Mi auguro che il percorso che ci ha gradualmente portato a questa frase sia stato chiaro: Lacan, innanzitutto, contesta l’idea di un’analisi fondata sul rafforzamento dell’io (che, se così fosse, potrebbe nominare il desiderio che si trovava, misconosciuto, nell’altro e ribadire, in tal modo, la propria euforica padronanza); poi, afferma la necessità di un lavoro analizzante che non si limiti alla dissoluzione delle identificazioni immaginarie dell’io, ma che, al contrario, metta al centro il soggetto dell’inconscio, il soggetto parlante, il soggetto diviso dal Linguaggio, fino a interessarsi al soggetto diviso dalle interferenze e dai condizionamenti che il sistema simbolico e la Legge esercitano sulle vicende individuali di ciascuno. Da qui, l’interrogativo: fino a che punto spingere l’analisi? L’analisi, cioè, deve arrivare a indagare la “posizione personale”, dunque ‘il livello sociale, l’avvenire, i progetti, nel senso esistenziale del termine, l’educazione, la tradizione’ del paziente? Le sue ‘appartenenze simboliche’?

Ecco perché Lacan si chiede se l’analisi debba essere inclusa nella grande tradizione dialettica: deve cioè prevedere un lavoro su quelli che sono i temi fondamentali sui quali l’umanità da sempre si interroga? Il coraggio, la giustizia, la morale di gruppo? Deve indagare la posizione del soggetto rispetto alle questioni basilari dello stare al mondo? Cos’altro vorrebbe dire, altrimenti, spingere l’analisi fino ad arrivare ai dialoghi fondamentali che la tradizione dialettica, a partire da Platone, ci ha lasciato? La formazione dell’analista, pertanto, sarebbe umana se prevede un’analisi che si occupi di questi temi? Che interroghi l’analizzante candidato analista sulle questioni che da sempre agitano l’animo umano? E soprattutto: ma cosa vuol dire quell’aggettivo umano relativo al sostantivo formazione? A cosa si riferisce? Alle eventuali qualità caratteriali dell’analista? Alla sua capacità empatica, di comprensione dell’altro, di vicinanza, di solidarietà? O cos’altro? Perché, in sostanza, fare ricorso a un significante così ambiguo per definire un percorso al termine del quale ci dovrebbe essere dell’analista?

Una prima indicazione utile, a mio avviso, per rispondere a queste domande la troviamo in un testo più o meno coevo, Funzione e campo della parola e del linguaggio35. Lacan, in questo suo scritto inaugurale, fa riferimento al passaggio in cui Freud nomina le discipline che avrebbero dovuto costituire la scienza annessa a un’ideale facoltà di Psicoanalisi: psichiatria, sessuologia, storia delle civiltà, mitologia, psicologia delle religioni, storia e critica letteraria (a queste, Lacan dirà che andrebbero aggiunte retorica, dialettica, grammatica e poetica): l’insieme delle cosiddette arti liberali, per l’appunto, discipline prive – aggiunge – di formalizzazione, ma capaci di mettere in evidenza “la felice relazione dell’uomo con la sua stessa misura” – “e assumendo da questa particolarità un fascino e un’umanità” e garantendo “una ricreazione del senso umano nel tempo arido dello scientismo”36. Come vedete, anche in questo passaggio Lacan utilizza il termine umano, in opposizione ad arido scientismo. Alla sterilità del discorso scientifico, la formazione dell’analista dovrebbe quindi replicare con la propria vocazione umanistica.

Il termine umano, in questa ottica, designerebbe la qualità che deriverebbe dal dedicarsi alle arti liberali, all’insieme di materie e discipline che, coltivate con costanza, realizzerebbero quel sottofondo simbolico, culturale e formativo sul quale la vicenda biografica di ognuno si sviluppa, influenzandola, condizionandola e orientandola. Come, appunto, nel caso del paziente di Lacan. Il suo sintomo è stato provocato dall’influsso di un enunciato della Legge, che ha enfatizzato un elemento della propria storia individuale e familiare, infiltrandosi indisturbato nello psichismo fino a determinare la strutturazione di un disturbo motorio localizzato nella mano. In altre parole, un elemento del sistema simbolico all’interno del quale il soggetto è cresciuto è passato in primo piano nel momento in cui il soggetto stesso è venuto a sapere del furto compiuto dal padre: il trauma di quella scoperta ha attivato il nucleo simbolico sottostante (la punizione del taglio della mano che la legge coranica prevede) e ha generato il sintomo (che mette in scena l’impotenza o l’innocenza della mano). È solo considerando l’elemento culturale sottostante, in definitiva, che quel caso clinico può essere compreso.

In modo analogo, Lacan sembra dirci che la formazione dell’analista debba tenere in conto un lavoro di affinamento, di levigatura, di ampliamento del proprio sistema simbolico-culturale (tanto sul piano dell’analisi personale, quanto su quello dello studio), affinché sia ridotto il rischio che da esso si distacchino frammenti non elaborati che possono esercitare un potere di condizionamento sullo psichismo e, più in generale, sull’attività inconscia. Questa potrebbe essere considerata una prima possibile traduzione/interpretazione della criptica affermazione di Lacan: l’umanità della formazione psicoanalitica sarebbe il frutto di un percorso in cui tanto la propria analisi quanto lo studio dei testi (di quelle Arti Liberali alle quali si faceva poc’anzi riferimento) punterebbero a trattare e ridurre al minimo nocive ingerenze socio-culturali.

Aggiungerei a conferma di quanto detto finora un ulteriore elemento che ho ricavato dalla lettura di un seminario di Alain Badiou, Images du temps present 37. In questo lungo seminario, c’è un breve ma significativo passaggio nel quale il filosofo francese commenta la frase di Lacan di cui ci stiamo occupando. Quel che mi ha particolarmente colpito è la precisazione del momento storico che, secondo Badiou, va considerato per contestualizzare correttamente il senso di quell’affermazione. Lacan, in effetti, pronuncia quella frase in un momento particolare della storia francese, qualche mese prima, cioè, dell’inizio della guerra di Algeria: dunque, nel momento in cui si era aperto nella società francese un acceso dibattito sull’opportunità o meno di un’impresa del genere, dibattito che aveva coinvolto non solo importanti intellettuali del tempo, ma anche, più genericamente, l’intera opinione pubblica. Un periodo in cui, in altre parole, erano frequenti prese di posizione pubbliche a favore o contrarie all’ipotesi bellica e che vedeva, pertanto, un confronto aperto tra punti di vista espliciti e contrapposti. L’ipotesi che Badiou lascia trapelare è che Lacan, nel pronunciare quella frase, abbia implicitamente voluto affermare la necessità di tornare a pensare in maniera dialettica, di affrontare, cioè, i grandi temi dell’umanità, le grandi questioni che interrogano l’essere umano nel suo rapporto con il mondo, il coraggio, la giustizia, la morale collettiva e – perché no? – la guerra e le conseguenze che comporta. Lacan sembra davvero domandarsi se questo debba essere il compito di un’analisi e, più specificatamente, della formazione dell’analista. Come se – per dirla in un modo diverso – l’analisi dovesse interessarsi e interrogare il soggetto fino al punto in cui – diciamo così – emerge il modo in cui egli guarda il mondo, il modo in cui lo abita, il modo in cui il rapporto con la legge si è inscritto nel suo psichismo: come se l’analisi dovesse spingersi fino a interrogare la Weltanschauung dell’analizzante, la sua concezione del mondo e la posizione che in esso vi occupa; come se, in altre parole ancora, l’analisi non potesse limitarsi alla perlustrazione dello spazio privato, intimistico e individualistico (relativo al desiderio e alle sue vicissitudini), ma dovesse aprirsi alle modalità esistenziali del soggetto, su come è nel mondo e da quale prospettiva (e con quali atteggiamenti e senso di responsabilità) lo guarda.

Seguendo tale pista di riflessione, sembrerebbe, allora, che Lacan abbia voluto indicare ai suoi allievi che la formazione dell’analista consiste in una sorta di percorso educativo in cui il candidato analista, attraverso il recupero della grande tradizione dialettica (e, pertanto, della pratica di discipline fondamentali – quelle che un tempo venivano definite del trivio e del quadrivio), può consolidare un proprio sottofondo culturale (bonificato da scorie e resti inelaborati del sistema socioculturale ereditato). Perché solo su questo basamento e solo in virtù e in forza di un substrato di pensiero formato in senso umano (o umanistico), l’analista può svolgere eticamente la propria funzione.

Formazione dell’analista, in conclusione, vuol dire formazione umana: l’analisi, allora dovrebbe portare alla luce quei contenuti culturali assorbiti a propria insaputa che si oppongono al pensare in maniera dialettica. A questa, dovrebbe affiancarsi una formazione in grado di sviluppare un’attitudine e una postura coerente con la propria funzione, dotata, cioè, di un’umanità che solo una certa pratica di affinamento culturale può rendere possibile. Un programma che – bisogna riconoscerlo – è rimasto finora clamorosamente incompiuto.

Note

  1. J. Lacan, Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino 2014.  []
  2. “Prima che il desiderio impari a riconoscersi – adesso diciamo la parola: attraverso il simbolo –, esso è visto solo nell’altro” (Ibidem, p. 202  []
  3. Ibidem, p. 216.  []
  4. Ibidem, p. 220.  []
  5. Ibidem, p. 221.  []
  6. Ibidem, p. 231.  []
  7. Ibidem, p. 229.  []
  8. Ibidem, p. 221.  []
  9. Ibidem, p. 229.  []
  10. Ibidem, p. 231.  []
  11. Ibidem, p. 167.  []
  12. Ibidem, p. 166.  []
  13. Idem.  []
  14. Ibidem, p. 232.  []
  15. Ibidem, p. 230.  []
  16. Ibidem, p. 233.  []
  17. Ibidem, p. 233.  []
  18. Ibidem, p. 225  []
  19. Ibidem, p. 226.  []
  20. Ibidem, p. 226.  []
  21. Ibidem, p. 226.  []
  22. Ibidem, p. 226.  []
  23. Ibidem, p. 227.  []
  24. Ibidem, p. 233.  []
  25. Ibidem, p. 234.  []
  26. Ibidem, p. 234.  []
  27. Ibidem, p. 234.  []
  28. Ibidem, p. 234.  []
  29. Ibidem, p. 235.  []
  30. Idem.  []
  31. Ibidem. P. 235.  []
  32. Idem.  []
  33. Ibidem, p. 236.  []
  34. Idem.  []
  35. J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Scritti. Vol. I, Einaudi, Torino 2002.  []
  36. Ibidem, p. 282.  []
  37. A. Badiou, Le Séminaire. Images du temps présent (2001-2004), Fayard 2004.  []